Zio Vania

Scene di vita rurale da Anton Čechov

Giorno e notte mi tormenta il pensiero che la mia vita è perduta senza rimedio. Non esiste il passato, l’ho speso stupidamente in sciocchezze, e il presente è terribile per la sua assurdità. Ecco qua la mia vita e il mio amore: dove riporli, che ne devo fare?

I personaggi di Zio Vanja sono tutti un pò bislacchi, a cominciare dall’omonimo protagonista che ha consumato la sua vita e, forse, il suo talento nell’amministrare la tenuta della sorella morta, sperduta nell’arretrata provincia russa. Ogni essere è legato all’altro in modo unico, con fili che talvolta sorreggono e talvolta diventano troppo tesi e soffocanti. Fili che si intrecciano tessendo trame preziose e ricche di mille sfumature come la penna di Čechov ci ha abituato. Ognuno prende una posizione nei confronti del tempo, di questa possibilità che ci scorre dalle mani – la nostra vita. Nel farlo si affrontano tanti temi: la politica, i sentimenti, il sacro. Infine ciascuno di loro avrà una risposta. Il nostro “Zio Vanja” sarà una preghiera che tenta di abbracciare il nostro passato, e ci spinge a parlare con gli uomini che verranno dopo di noi, e che non conosceremo, esattamente come ha fatto Anton Čechov rivolgendosi a noi – più di cento anni fa – scrivendo questa storia. 

Personaggi divertenti e teneri, vulnerabili e beffardi, deboli nella loro ricerca e resistenti negli errori. Mangiano, bevono tè, camminano, dicono cose senza senso e cose intelligenti di attualità, condividono preoccupazioni e delusioni mentre le loro vite si distruggono. Uno spettacolo sui sentimenti umani e le vite perdute.

Regia – Olga melnik

Disegno Luci – Samuele Batistoni

Scenografie – Stefano Meucci, Vasco Bonechi

ALEKSANDR VLADIMIROVIÈ SEREBRJAKOV, professore in pensione – Gianni Monini
ELENA ANDREEVNA, sua moglie – Valentina Schiavi
SOF’JA ALEKSANDROVNA (SONJA), sua figlia – Ilaria Mulinacci
MARIJA VASIL’EVNA VOJNICKAJA, madre della prima moglie del professore – Francesca Catarzi
IVAN PETROVIÈ VOJNICKIJ, suo figlio – Samuele Batistoni
MICHAIL L’VOVIÈ ASTROV, medico – Davide Papi
IL’JA IL’IÈ TELEGIN, proprietario terriero in miseria – Vasco Bonechi
MARINA, la vecchia balia – Tiziana Fusco

120 minuti in due atti

Un’ opera senza tempo che, rappresentata oggi o tra mille anni, conserva intatta la sua sostanza e fragranza. La pelle e la mente dei personaggi di Zio Vanja rivivono a La Fonte, con piccoli cambiamenti: Sonja appare più infantile e Elena più capricciosa, il dottor Astrov fatuo e zio Vanja di un buonumore artificiale. Nonostante tutto, l’universo russo di Cecov riesce a reincarnarsi dalle mani della regista, la trama resta fedele all’originale, un labirinto di desideri e ambizioni che bruceranno sul nascere, ma la cui cenere andrà a fertilizzare i campi, unica ancora di salvezza per Sonja e Vanja. Nella scenografia il samovar caldo, centro di gravità e di stabilità, è a ridosso della quinta, quasi a un attimo dall’essere inghiottito, così come la naturale vita contadina è inghiottita dall’arrivo del professore e come all’epoca di Cecov è inghiottita dall’era industriale. Con questa trovata, lo scenario perde equilibrio e noi veniamo introdotti nelle vite asimmetriche dei personaggi, mentre il samovar è uno dei pochi oggetti riconducibili alla realtà, nelle cui vicinanze esploderanno i sentimenti di Sonja, Elena e di zio Vanja. Scarno e vuoto, anch’esso a ridosso della quinta, è lo spazio che designa il “fuori”, la campagna, dove i personaggi si lasciano andare alle confessioni, alle speranze, ad un attimo di pace. Ognuno incatenato alla propria personalità, ai propri modi di dire e allo studio ossessivo degli altri, allo stesso tempo ognuno di loro aspira alla felicità, da poter lasciare utopicamente in eredità alle generazioni future, ma che non potrà afferrare per tutto il tempo dell’azione. La povera Sonja non sa però che nel monologo finale, in cui aspira alla salvezza ultraterrena dai tormenti, con le sue parole ha piantato un albero, all’ombra dei cui rami ci ripariamo ancora oggi. Le bellissime musiche russe danno il ritmo all’azione, da quelle più festose, che rendono l’idea della confusione mentale in cui sono caduti tutti i personaggi (eccetto la madre di zio Vanja, simbolo per me della vecchia aristocrazia, incartapecorita e sorda) a quelle dense e drammatiche, che rispecchiano le passioni di questa umanità in miniatura. L’inquietudine, la dolcezza, la pietà sobbollono perennemente come l’acqua calda del samovar, con qualche aggiunta di anidride carbonica, ovvero di una recitazione anche ironica, di un’ironia extratestuale, che spezza al momento giusto le emozioni più forti. Un alternarsi di maree è quindi lo spettacolo, che fa toccare gli scogli più profondi e i cieli più lontani. Lasciatevi andare alla marea, alle arguzie spontanee e divertite degli attori, all’andamento lento degli eventi, che porterà ad uno scoppio -vero e metaforico- di rabbia da parte di zio Vanja nei confronti di chi vuole vendersi la sua casa e il suo terreno, di chi incarna l’arroganza di un nuovo mondo che si affaccia e vuole distruggere foreste e vite umane. Un’opera preveggente da ripetere e riproporre fino ad ipnotizzare con il suo messaggio.

“Quando sento stormire una giovane foresta piantata con le mie mani, mi convinco che se tra mille anni l’uomo sarà felice, un parte di colpa ce l’avrò io.”

Tessa Granato

Date

  • 13 dicembre 20.00
  • 14 dicembre 20:00
  • 15 dicembre 16.00

Prezzi

  • 10 euro intero
  • 8 euro ridotto
  • 20 euro con cena

Menu

Menu da definire.

Prenotazione